La storia di Lorenzo e Federico

Lorenzo e Federico sono nati il 20 maggio 2012: 28+3; 990 e 900 grammi. Lorenzo e Federico erano la cosa più piccola e più potente che avessimo mai visto prima di quel momento.

In molti descrivono i bambini prematuri come “guerrieri”. Se devo dirla tutta non amo questa parola eppure la prima volta che i miei occhi si sono spalancati su di loro mi sono sembrati proprio due minuscoli guerrieri, a torso nudo, con la pelle traslucida e il volto severo, gli occhi chiusi di chi è concentrato e non può permettersi distrazioni. Guerrieri dall’indistruttibile scudo trasparente armati di aghi, cerotti e lunghi tubi per combattere una prima, decisiva battaglia. Lorenzo e Federico erano lì nella loro impalpabile fragilità, gli potevi vedere il cuore battere nel petto e contare le ossa del torace, seguire il ritmo forsennato del loro respiro.

I nostri figli sono venuti al mondo con il fragore di una deflagrazione e noi due, senza capire come, ci siamo ritrovati catapultati in una dimensione parallela: il reparto di Terapia Intensiva Neonatale.

Il citofono, la porta, i calzari, l’odore di farmaci e disinfettanti che ti punge il naso, le luci al neon, le divise, le gerarchie, il concerto di saturimetri, il lavaggio delle mani e poi il cuore in gola perché entri e non sai mai quel che trovi. No, non lo sai proprio mai. Da genitori prematuri quali eravamo abbiamo dovuto imparare  a vivere il momento, abbiamo dovuto farlo, per non cedere alla follia, perché la cosa più dura da gestire è l’attesa, l’attesa e la totale, disarmante e assoluta mancanza di certezze. Un giorno durava dieci. Lorenzo e Federico erano come due uccelli, spiccavano il volo e poi cadevano in picchiata. Lo hanno fatto di continuo fino a poco prima delle dimissioni. Loro te lo dicono. I medici, le infermiere, te lo dicono anche i muri in quel reparto. È la prima cosa che ti dicono: i prematuri fanno così, sono assolutamente imprevedibili. Non devi farti troppe domande e non devi pensare a un tempo più lungo di quello che ci vuole per percorrere lo spazio che ti separa dalla porta del reparto a loro. Ti tremano le gambe, pensi sia troppo per te. Pensi sia troppo per chiunque. Mi sentivo sull’orlo di un immenso abisso tuonante pronto ad inghiottirmi. “Ti abbatterai come un tronco colpito da un fulmine”- mi dicevo. “Non reggerai, no di certo. Nessuno può reggere ad una cosa del genere. Figuriamoci tu”.

Poi dal nulla senti chiamare “mamma”, “papà” ti volti con l’aria mesta cercando di capire chi sarà questa persona tanto fortunata e poi sgrani gli occhi e ti si chiude la gola, ce l’hanno proprio con te. Dare un nome alle cose fa prendere loro vita. Ti rendi conto che comunque vada sei mamma, sei papà che non sei più quello che eri prima, non lo sarai mai più. Hai il dovere di essere più forte di qualsiasi cosa, non puoi sottrarti, non puoi più scappare e allora stringi il pugno e inizi a combattere al fianco dei tuoi figli. Ti cominci a guardare intorno e il reparto diventa la tua famiglia. I medici, le infermiere, gli ausiliari, gli altri genitori come te. Il mondo esterno si azzera, in quel mondo lì sei solo di passaggio tra un ingresso e l’altro in TIN. Impari ad associare nomi ai volti, con il passare dei giorni riconosci le voci, a volte riesci anche a sorridere, chi l’avrebbe mai detto. E ti rendi conto che dentro quelle divise ci sono medici e infermiere che condividono con te gioia e frustrazioni. Ci sono le persone che hanno tra le mani la vita dei tuoi figli e il tuo destino. E impari ad amarli anche quando la notizia non è quella che volevi sentire.

L’esperienza in reparto per noi è stata davvero molto intensa, ha avuto il potere di scompaginare completamente la nostra esistenza. Qui ci siamo sentiti accolti, abbiamo avuto la sensazione che i nostri figli fossero importanti per voi, che tutti i figli sono importanti per voi. Dentro quel reparto è custodito un pezzo del nostro cuore e una parte fondamentale della nostra vita.

 Il percorso è stato duro, durissimo ma abbiamo imparato a sopportare l’insopportabile incertezza di non sapere come andrà a finire il viaggio. Abbiamo imparato nostro malgrado a vivere il momento, l’ora. O almeno ci proviamo. Tutto può cambiare in un minuto, nel bene e nel male. È una legge della vita che in un reparto di Terapia Intensiva Neonatale si impara nel più impietoso dei modi.

I nostri figli ci hanno insegnato a vivere il momento. Voi avete fatto sì che rimanessero in vita e poi ci avete insegnato a prenderci cura di loro. È stato un percorso aspro, impervio ma nella nostra memoria rimane anche una lunga teoria di momenti di pura felicità. E sono quelli che vorrei ricordare. Ci avete insegnato davvero tutto: cambiare un pannolino ad un cosetto di settecento grammi fa sudare freddo al solo pensiero. È grazie al vostro incoraggiamento se sono riuscita a trovare la forza di tirarmi il latte, è stata una di voi a far attaccare i miei figli al seno, con la pazienza di una santa, per più di un’ora per due grammi di latte. Quei due grammi dopo tre mesi sono diventati 150 e Federico e Lorenzo hanno preso il latte della loro mamma per sette mesi e mezzo facendo il percorso che più inverso non si può: gavage, biberon, seno.

Le cose che per la maggior parte delle mamme e dei papà sono per fortuna normali per noi genitori prematuri sono conquiste e ci regalano attimi di pura felicità. Siete state voi adorate infermiere a metterceli sul petto per la prima volta e per tutte le volte a seguire, con pazienza e dedizione. In quei momenti lì il cuore schizza. Trovi il coraggio per lanciarlo oltre l’ostacolo quel tuo cuore dolente e andare avanti. Tenere tuo figlio sul petto, fargli sentire che ci sei e che non desideri altro che stia bene. Fargli sentire il calore e la pressione delle mani, stare ore e ore in piedi davanti alla sua incubatrice a mandare a memoria i suoi tratti, a registrare ogni piccolo cambiamento. L’assedio è lungo, ma mamma e papà non schiodano. Lasciare tutte le paure e le incertezze fuori dalla porta del reparto perché loro devono respirare fiducia e forza, mani e voce non devono tremare anche se dentro tu vuoi morire. E quando hai finito le parole o non le trovi, ti metti a sussurrare Cuccuruccuccù Paloma sempre quella, solo quella, come un mantra.

Quello che noi siamo oggi, nella nostra conquistata quotidianità, nella consapevolezza raggiunta di essere felici oltre ogni modo devono tutto alla serietà, all’amore e alla dedizione con cui svolgete il vostro lavoro.

Questo non lo dimentichiamo mai, neanche un secondo, neanche per sbaglio.  

Ogni conquista di Federico e Lorenzo, ogni loro sorriso, ogni loro passo per il mondo sono dedicati a voi. Grazie da qui alla fine dei giorni.

Arianna e Salvo

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