La storia di Giacomo

La mattina del 6 giugno 2008, alla fine della mia prima settimana di congedo per maternità, con il costume da bagno nella borsa perché dopo sarei andata in piscina, arrivo al policlinico Umberto I per un monitoraggio di routine. Diversamente dal solito, la mia lenticchia è pigra. Aspetto un po’, mangio un dolcetto, ripeto il monitoraggio. Aspetto ancora, il tracciato non convince i medici, vogliono fare un’ecografia: qualcuno mi accompagna, aspetto il mio turno. Non ricordo di essere stata preoccupata fino a che, durante l’ecografia, la giovane dottoressa dice che un rene del mio bambino è molto ingrossato. Praticamente sento il mio cuore fermarsi. Totalmente impreparata, aspettavo di sentirmi dire che tutto era a posto, che potevo andare a nuotare e continuare ad aspettare. Invece vado in pronto soccorso per una visita e le domande di rito, sono stordita e non capisco cosa stia succedendo. In corridoio chiedo dove mi stanno portando e la risposta è ancora più inaspettata: andiamo in sala travaglio.  Inizio ad agitarmi ma continuo a non capire, manca ancora un mese, Federico è fuori Roma, ho lavorato fino a pochi giorni fa, niente è pronto, com’è possibile? In sala travaglio vengo attaccata alla macchina per il monitoraggio, con grande premura ostetriche e infermiere si fanno consegnare i miei vestiti e la borsa con il costume da bagno, chiedo se mi verrà indotto il parto e, anche se data con molta delicatezza, la risposta è che bisogna sbrigarsi un po’. Un taglio cesareo d’urgenza di cui ricordo quasi ogni momento, i bellissimi occhi blu sopra la mascherina di un’ostetrica molto affettuosa, e Giacomo è arrivato. L’ho sentito pigolare, l’ho baciato commossa, innaffia la sala di pipì, sorrido e mi rassereno: se fa pipì i reni stanno bene! Poi un pomeriggio di cui ho ricordi molto confusi, la vaga sensazione che qualcosa non quadrasse, stanchezza, stordimento, felicità. Nel buio della stanza, a sera ormai inoltrata, una dottoressa viene a chiedermi il consenso per una trasfusione, mi spavento, chiedo spiegazioni che non capisco, conto i minuti perché faccia giorno e io possa parlare con i medici. Veniamo convocati, le facce sono tese, la situazione è grave. Giacomo ha una trombosi della vena renale, un generale scompenso dei fattori di coagulazione, un ittero importante, il rischio che il trombo si sposti o se ne formino altri, bisogna stabilizzarlo prima di intervenire con una terapia, bisogna aspettare e sperare. Comincia così la nostra avventura di genitori, comincia così l’avventura di Giacomo, piccolo guerriero, bambino forte e coraggioso. Le tre settimane in terapia intensiva sono state un’esperienza che mai ci saremmo aspettati, in una dimensione parallela che nessun genitore immagina quando sogna l’arrivo del proprio figlio. Giorni e notti in cui si imparano parole e concetti che appartengono a un altro mondo e che diventa improvvisamente il tuo. Si pensa di iniziare a darsi da fare con ruttini e pannolini e ci si ritrova esperti di saturazione di ossigeno e cateteri parenterali, si immagina di andare a spasso sotto il sole e si finisce con l’essere grati al momento in cui è finalmente possibile tenerlo in braccio tra i tubicini. Terrore, tormento, stanchezza, speranza, gioia, di nuovo paura. Ma senza mai essere soli. Medici, infermiere e tutto il personale della terapia intensiva neonatale hanno tenuto per mano noi genitori, guidandoci in un percorso difficile con straordinaria umanità e mai nessuna parola potrà davvero esprimere la gratitudine che portiamo nel cuore. Come ho avuto la fortuna e il privilegio di poter raccontare durante la festa di fine anno del 2008, far nascere Giacomo al Policlinico Umberto I è stata una delle scelte migliori che abbia fatto nella vita.

 

Angela e Federico, genitori di Giacomo

 
 

 

 

 

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